Visita guidata della mostra con l’autore Domenica 26 Ottobre, ore 10.00 – Ex Chiesa di San Cristoforo, Via Fanfulla 14, Lodi. MAPPA
Basket femminile? In Europa e negli Stati Uniti ci sembra una cosa normale, ma a Mogadishu, la capitale somala distrutta dalla guerra, ci sono giovani donne che rischiano la vita tutte le volte che si presentano sul campo da gioco.
Suweys, il capitano della della squadra somala di basket femminile, ha 19 anni e insieme alle sue compagne sfida le posizioni islamiche sui diritti delle donne ogni volta che gioca lo sport del nemico, chiamato America. Questo è il motive per cui sono target di gruppi military come al-Shabaab o di radicalisti islamici. Al-Shabaab ha recentemente creato un alleanza con il gruppo terroristico di Al Qaeda. Nonostante al-Shabaab sia stato mandato fuori da Mogadishu nel 2011 dal Transitional Federal Government e dalle truppe dell’African Union, I militant islamici sono ancora presenti nella capitale, nascosti tra la popolazione. Tristemente, le giocatrici di basket lo sanno fin troppo bene, per le tante minacce di morte che hanno ricevuto, non solo dai militant di al-Shabaab ma anche da radicali islamici e da alcuni membri uomini delle loro stesse famiglie.
Al-Shabaab, che ha messo bombe sotto le bancarelle dei mercati, ha fatto saltare in aria ristoranti, ha ucciso giornalisti e che segue le dure leggi della Sharia, ha dichiarato che la squadra femminile di basket è “non-islamica”. Una delle punizioni proposte è di tagliare ad ogni giocatrice la loro mano destra e il loro piede sinistro. O più semplicemente: sparare.
La squadra di Suwey si allena protetta da muri pieni di spari, nelle rovine della fallita città di Mogadishu. Sono protette da uomini armati pagati dall’associazione per il basket somala per controllarle e proteggerle dagli attacchi. Le giocatrici vivono nella costante paura dei gruppi militant. Smettere di giocare a basket? Mai, dicono loro. Questo è il motivo per cui devono essere discrete riguardo la loro passion. Mentre Suweys cammina in pubblico per recarsi agli allenamenti, veste con abiti lunghi e il velo, e nasconde la sua divisa da basket in fondo alla borsa, così che la gente possa pensare che sta andando a scuola. Nonostante il pericolo, Suweys è determinata, forte del supporto che la madre le ha sempre dato, anche quando famigliari e vicini di casa le hanno insultate per strada, costringendole a trasferisti due volte in un anno.
“Voglio solo fare una schiacciata” dice Suweys. È proprio sul campo da basket che si sente felice. “Il basket mi fa dimenticare i miei problemi”. Per questo motivo, quando gli allenamenti son finiti, lei lascia il campo con riluttanza per tornare in quell mondo che la aspetta in una delle città più pericolose del mondo. Considerando che la Guerra civile ha devastato il paese per oltre 20 anni, la diciannovenne Suweys e la sua generazione, non hanno mai provato a vivere nella pace. Lei comunque ci spera nella pace e nell’essere libera di giocare a basket, così da poter magari fare una carriera e diventare famosa a livello internazionale.
Jan Grarup (Danimarca, 1968), nel corso della sua venticinquenne cattiera ha fotografato molte delle recenti problematiche legate ai diritti umani e ai conflitti. Il lavoro di Grarup riflette la sua fede nel ruolo che il fotogiornalismo ha come strumento di testimonianza e memoria, così da poter incitare al cambiamento, e alla necessità di raccontare le storie delle persone che non possono raccontare la propria.
Le sue immagini dei genocide in Ruanda e Darfur forniscono un’incontrovertibile evidenza della inimmaginabile brutalità umana, nella speranza che eventi di quell genere non accadano più e non vengano più tollerati. Il suo lavoro “The Boys from Ramallah and The Boys from Hebron” mostra entrambe le parti dell’Intifada espresse tramite la vita del bambini. Il lavoro di Jan porta I visitatori ai limiti della disperazione, della dignità, della sofferenza e della speranza. Le sue immagini sono importanti per tutti noi, perchè formano il racconto dei tempi in cui viviamo, ma che spesso non abbiamo il coraggio di riconoscere.
Jan ha ricevuto molti dei premi più prestigiosi dall’industria fotografica e da organizzazioni per I diritti umani tra cui 8 World Press Photo, UNICEF, W. Eugene Smith Foundation for Humanistic Photography, Oskar Barnack Award, POYi e NPPA. Nel 2005 ha ricevuto il premio Visa d’Or al festival Visa Pour l’Image per il suo lavoro sulla crisi dei rifugiato del Darfur.
Jan Grarup viene rappresentato dall’agenzia tedesca LAIF e vive a Copenhagen, Danimarca.
Sito personale: jangrarup.photoshelter.com